Attraversare le contingenze allargando le prospettive

10/05/2013
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Gioni: la mia Biennale



Padiglione Centrale, Giardini, Venezia, 2010. Photo: Giorgio Zucchiatti. Courtesy: la Biennale di Venezia




Il curatore Massimiliano Gioni alla conferenza stampa di presentazione della 55ma Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia, 13 marzo 2013, Roma




Marino Auriti with the Encyclopedic Palace of the World Photographer unidentified, c. 1950s. Collection American Folk Art Museum, New York




Camille Henrot, Coupé/Décalé, 2010. Video, 3:54 min. © Camille Henrot Courtesy the artist and kamel mennour, Paris




John Bock, Unzone / Eierloch, 2012. Copyright the artist, courtesy Sadie Coles HQ, London




Yuri Ancarani, Da Vinci, 2012. Digital video, 25 min. Courtesy the artist and Galleria Zero




Ragnar Kjartansson Bliss, 2011 Performance, 12 hours Abrons Art Center, Performa 2011, New York. Courtesy of the artist, i8 Gallery, Reykjavik and Luhring Augustine, New York. Photo: Elísabet Davíðsdóttir




Phyllis Galembo Cowboy, Tumus Masquerade Group, Winneba, Ghana, 2009 Ilfochrome 76 x 76 cm Courtesy the artist and Steven Kasher Gallery, New York




Melvin Moti, Eigenlicht, 2012. 35mm film Courtesy the artist and Meyer Riegger




Gaggiandre, Arsenale, 2010. Photo: Giulio Squillacciotti. Courtesy: la Biennale di Venezia




Padiglione Italia, Arsenale, 2010. Photo: Giulio Squillacciotti. Courtesy: la Biennale di Venezia




In un dialogo via skype, Massimiliano Gioni, classe 1973, ci racconta la sua 55ma Esposizione Internazionale d’Arte, un “Palazzo enciclopedico” che prende spunto dal progetto di Marino Auriti che – anche se brevettato – era impossibile ed è fallito. Il meccanico autodidatta italo-americano voleva costruire una torre che avrebbe contenuto un archivio di tutto il sapere umano.
Simile a un'arca di Noè che salva le conoscenze dalla sparizione e dall’oblio, la Biennale di Gioni indaga i frutti dell’immaginazione che connettono conoscenza e immagini, spostandosi verso terre inesplorate di artisti non professionisti e “outsider” produttori di fantastico, fantasmagorico e irrazionale.
Potremo quindi curiosare in una Wunderkammer mondiale, capace di scuotere le geografie eurocentriche o razionalistiche e di estendersi nei territori degli sciamani, alla frontiera con la follia.
Ogni pretesa di raccontare il mondo intero sconfina in delirio ed è destinato a fallire come il palazzo enciclopedico di Auriti; ogni Biennale, in fondo, rappresenta un tentativo simile e ogni curatore di Biennale spinge faticosamente il suo sasso sulla montagna…


Intervista a cura di Barbara Fässler

Barbara Fässler: Vorrei parlare del concept del tuo progetto per la Biennale, in particolare del rapporto tra arte e conoscenza, che tocca un tema importante nella storia della filosofia, ovvero il discorso sull'impatto della sensibilità o della razionalità nel processo conoscitivo, questione sulla quale si sono battuti empiristi e razionalisti.
Anche da parte dell'arte si può notare una crescita di interesse su queste tematiche negli ultimi tempi.
Ad esempio la Biennale di Bice Curiger con il titolo "Illuminazioni" che si riferiva all'illuminismo o dOCUMENTA (13) di Carolyn Christov Bakargiev che creava situazioni scientifiche interdisciplinari e poneva al centro uno spazio densissimo di vari oggetti e opere significativamente battezzato "cervello". Anche il logo della tua Biennale rappresenta un cervello...
Mi sembra quindi un tema di grande attualità e volevo capire come ti posizioni in tutto ciò e come funziona la tua "teoria della conoscenza".


Massimilano Gioni: (Ride).. In realtà non credo che si tratti della mia teoria della conoscenza, più che altro io guardo agli artisti e alle loro opere come vari modi di approcciare la conoscenza.
Ho fatto in modo che questa mostra considerasse una serie di aspetti. Da una parte il desiderio di conoscenza, ma nel momento in cui diventa quasi delirio o paranoia e si traduce in una forma di follia: il desiderio di sapere tutto che giunge ad un momento di squilibrio.
In secondo luogo c'è nell'etimologia della parola immaginazione un legame molto forte tra la conoscenza, l'immagine e l'idea che nella nostra mente si costruiscano e si portino immagini.
Un aspetto fondamentale della mostra è la conoscenza per immagini e il modo in cui le immagini ci aiutano a visualizzare l'invisibile, a formalizzare idee astratte.
Il modo in cui le immagini e l'immaginazione si mettono al servizio della conoscenza, quella di ciò che è apparentemente impossibile o al di fuori del dominio del conoscibile. In quel senso la mostra ha anche molti legami con la tradizione surrealista e con l'idea di fantastico.
Il terzo elemento sta nel modo di affrontare queste ricerche: guardando a un panorama più allargato che include artisti, scrittori, ma anche figure liminali che sono gli artisti cosiddetti autodidatti oppure outsider.
Volevo che ci si interrogasse su una definizione di arte che rischia di essere troppo conchiusa, che si rivolge soltanto agli artisti professionisti ed esclude altri episodi di visionarietà.

B.F.: Il palazzo enciclopedico di Auriti ovviamente ricorda un po' l'atlante, l'enciclopedia, "Le musée imaginaire" di Malraux, l'”Atlas” di Richter, ma formalmente anche la torre di Babele e il monumento della 3za Internazionale di Tatlin.
Insomma si possono trovare nella storia tanti diversi tentativi di raccogliere la conoscenza umana in una determinata forma.
Diderot dice che l'enciclopedia ha il compito di riunire le conoscenze e di trasmetterle ai posteri, perché “non dobbiamo morire senza aver ben meritato del genere umano”.


M.G.: Innanzitutto faccio un passo indietro, visto che hai citato Diderot, è importante sottolineare che la mostra si chiama "Il Palazzo enciclopedico", ma non ha nulla dell'enciclopedia illuminista e neppure del titolo della mostra curata da Bice Curriger che dicevi prima.
È piuttosto una mostra sui tentativi di conoscenza nelle loro versioni più barocche o medioevali, cioè di “enciclopedie” in cui fatti, leggende e miti sono tutti combinati e in cui c'è un'idea di sapere più simile al percorso associativo, cioè in fondo l'esperienza del sapere che facciamo anche oggi.
È una mostra che credo parli più di certe spinte irrazionaliste che di una sorta di sistematizzazione del sapere Neo-illuminista, insomma.

BF: Si deve leggere l'idea del “Palazzo enciclopedico” come critica rispetto all'attuale situazione di crisi generale e in particolare in Italia?

MxG: Quando m'imbarco in mostre di questo tipo, cerco sempre di trovare argomenti che si spingano un po' più in là dell'attualità.
Mi piace che in controluce si leggano dei riferimenti al presente, ma spero che gli argomenti che si affrontano in queste mie mostre trascendano un po' l'attualità e riguardino problemi nei quali gli esseri umani e gli artisti si sono imbattuti tante volte nel tempo.
È ovvio che una mostra sul sapere e sul sapere attraverso le immagini è molto attuale, perché rileva la condizione nella quale viviamo tutti: quella della cosiddetta società delle immagini e della conoscenza, in cui informazione, economia e potere sono sempre più collegati.
In questa riflessione sul ruolo degli autodidatti e delle figure non professioniste, la mostra s'interroga sui meccanismi d’inclusione e d’esclusione, chi ha il diritto di essere dentro e chi no.
Se poi mi chiedi se ci sono riferimenti specifici alla situazione economica in Italia, rispondo che non direi, anche se ci sono opere che affrontano alcuni di questi problemi, come una serie di performances di Marco Paolini che parlano di lavori che scompaiono. Oppure un lavoro di Rossella Biscotti che raccoglie i sogni raccontati dalle carcerate.
Ci sono quindi opere che s'intersecano con l'attualità, ma spero in maniera trasversale.

B.F.: Allora si potrebbe trattare semplicemente di un tentativo disperato di creare un’Arca di Noè per la conoscenza umana?

MxG: L’arca di Noè, quell'immagine è stata fonte d'ispirazione, perché pensavo all'Arsenale come un luogo dove si costruivano le navi e anche come luogo in cui una certa idea del meraviglioso è nata.
Nel Cinquecento, complice anche l'espansione geografica delle colonie, si sviluppa un'idea del meraviglioso e del fantastico che è connessa anche a Venezia e in particolare modo anche all'arsenale, questo addirittura veniva chiamato "La fabbrica delle meraviglie".
Quell'età del meraviglioso ritorna nel Novecento con Borges e con tutta una tradizione fantastica che mi sembrava interessante esplorare.

B.F.: Tu dici che al sogno di una conoscenza universale e totalizzante, che chiami “un tentativo vano di costruire un'immagine del mondo che ne sintetizzi la varietà e la ricchezza”, contrapponi cosmologie personali e deliri di conoscenza.
Immagini irrazionali, deliranti e folli sono capaci di portarci fuori dall'impasse di un mondo confuso dal diluvio dell'informazione?
L'arte ha quindi un compito utopico, sociale o educativo? E se sì quale?


MxG: L'’irrazionalismo a cui fai riferimento, che m'interessa vedere e di cui molte opere in mostra parlano, è il confronto tra l'individuo e il mare magnum dell'informazione.
Anche nei casi più deliranti, si offrono situazioni in cui l'individuo torna ad essere al centro di questo flusso d'immagini: sono esempi che ci possono insegnare a navigare in questo mare. Lo dico guardando te e guardando il mio computer allo stesso tempo.
La spazialità che la società digitale richiede forse ci pone in una situazione simile al collezionista che arrangia la sua Wunderkammer attorno a sé, e lo fa da una parte illudendosi di tenere tutto sotto controllo e dall'altra in un momento in cui anche storicamente si assiste alla perdita di un centro.
L'idea del meraviglioso e l'eterogeneo della Wunderkammer spunta nel momento in cui la geografia e la storia eurocentrica viene messa in scacco. In alcune di queste opere spero si veda sia questo tentativo disperato, ma anche la necessità dell'individuo di riporsi al centro di un mondo sempre più vasto, impazzito e sfuggente.

B.F.: Quali sono allora le funzioni dell'arte?

MxG: Ce ne sono tante, no? Credo che da questa mostra in particolare emergeranno due punti. Uno è l'arte come esteriorizzazione delle nostre immagini interiori. Si fonda su una constatazione che è banalissima ma che non smette di sorprendermi, cioè che l'essere umano ha delle immagini nella sua testa.
Un altro punto di partenza è il libro di sogni e visioni di Karl Gustav Jung, dove egli esercita la sua visione e riversa le sue immagini interiori.
La magia dell'arte è proprio questo trovarsi a cospetto d'immagini che per un attimo ci sembrano identiche a quelle che abbiamo avuto dentro di noi. È un'esperienza che al cinema si fa spesso, quella che le immagini che scorrono assomigliano alle nostre immagini oniriche. Il fatto che le scopriamo fuori di noi è una rivelazione straordinaria.
Un aspetto della funzione dell'arte è questo: visualizzare le nostre immagini interiori e così produrre il visibile.
Nel modo in cui la mostra si ricollega alle varie figure e storie nel surrealismo, incoraggia una sorta di fiducia nel dominio del fantastico, non come luogo di ritiro, ma come esercizio dell'immaginario.
Penso che oggi, in un mondo sempre più occupato delle immagini, la funzione dell'arte sia di aiutarci a definire una nuova ecologia dello sguardo e delle immagini: come si possa vedere in un momento in cui ci sono così tante immagini che offuscano la nostra visione.
L'arte può aiutarci a capire quali sono le immagini che vale la pena tenere e quali sono da buttare. Ovviamente l'arte ha molte altre funzioni eppure nessuna – che è anche il suo bello.

B.F.: Abbiamo parlato della funzione dell'arte e delle immagini e ora vorrei farti una domanda in veste di curatore che anche lui crea un'immagine. Costituire un archivio, tornando al discorso del Palazzo Enciclopedico, significa fare delle scelte.
Tu scegli gli artisti, scegli i pezzi, quindi scegli la veste della mostra attraverso tutti questi elementi, no?


MxG: Sì.

B.F.: Anche l'archivio stesso è da considerare una griglia che determina la realtà decidendo cosa salvare e cosa abbandonare all’oblio. Darai una faccia nuova al mondo dell'arte dei prossimi anni. Come vedi questo “Palazzo enciclopedico” che contribuisci a costruire?

MxG: Sai, la scelta del “Palazzo enciclopedico” come titolo e del riferimento ad Auriti è anche un commento autocritico sulla Biennale e su me stesso.
Il “Palazzo enciclopedico” di Auriti innanzitutto è un progetto fallito, è un progetto bellissimo, ma fallito, rimane un modello che di sicuro mai avrebbe potuto realizzarsi. Mi sembra che in questo già ci sia un antidoto all'idea di sapere universale.
Una cosa, credo, è importante specificare: non sto facendo una mostra che dice questo è tutto lo scibile, venite a vederlo.
È una mostra sui tentativi di conoscenza universale, ma sui tentativi falliti, se vogliamo.

B.F.: Certo...

MxG: In un certo senso è riconoscere l'impossibilità dell'aspettativa che si ha su una Biennale di Venezia di raccontare il mondo intero.
Volevo fare questo riferimento esplicito perché la Biennale di Venezia è la mostra che più di altre – essendo così antica – getta le radici proprio in quell'idea di universalismo ottocentesco che era poi quello dell'esposizione universale.
In questa scelta volevo anche già sollevare il dubbio che quella forma di conoscenza potesse essere impossibile e sempre parziale, destinata a fallire.
L'altro aspetto, quello più autobiografico è che anche io mi sono sentito un po' come Auriti investito di questo compito impossibile.
C’è una sorta di glorificazione dell'autodidatta in questa mostra, che in un certo senso parla anche di come mi sento io come curatore ma anche nella vita di tutti giorni.
Un autodidatta sempre sul punto di impazzire di fronte a tutto ciò che dobbiamo sapere, insomma.

B.F.: Che cosa contiene il tuo Palazzo? Degli oggetti trovati oppure applichi dei criteri di scelta razionali? Quali etichette saranno appiccicate sui cassetti dei mobili nel tuo Palazzo?

MxG: Innanzitutto, il Palazzo è incompleto (ride), avrebbe dovuto essere molto più grande probabilmente ma forse è meglio che sia incompleto...
Soprattutto nel padiglione centrale troveremo una riflessione sull'immagine dentro di noi: il sogno, la visione e le corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo. Qualsiasi paranoico sa che non esistono coincidenze o che tutto è una coincidenza.
L'arsenale, invece, è più dedicato, diciamo, all'artista che cerca di decretare il mondo. Comincia con una riflessione sulle forme naturali, l'artista che cerca di ritrarre gli alberi, scoprire il codice delle piante, il linguaggio segreto dei fiori e delle conchiglie.
Il tentativo di guardare il mondo in maniera innocente, con rinnovato stupore, che poi piano piano cresce verso una serie di opere in cui l'artista si misura con quella che è oggi la nostra società dell'immagine: quindi l'informazione, la cultura digitale e i nuovi "artificialia".
Al centro dell'arsenale ci sarà poi la mostra nella mostra organizzata da Cindy Sherman che guarda a un aspetto fondamentale dell'immagine cioè la rappresentazione dei corpi e dei volti.

B.F.: Ho notato, guardando il video della conferenza stampa e le immagini che facevi vedere, che molti di quei lavori erano proprio delle rappresentazioni bidimensionali.
Dobbiamo immaginare di trovare una mostra piena di immagini appese al muro, oppure ci saranno anche lavori che occupano lo spazio, magari performance?


MxG: Quello che dici è vero, è una mostra in cui ci saranno molte immagini bidimensionali da muro.
Anzitutto perché è una mostra che coglie anche un aspetto introverso, in cui il disegno ha un ruolo molto importante: l'atto di disegnare, anche compulsivamente per raccogliere i propri pensieri o l'idea di scrittura automatica, insomma.
Il disegno come spazio inteso quasi come diretta estensione della nostra fantasia è molto presente e ricorre ovunque. Proprio perché è una riflessione sulle immagini, oltre alle rappresentazioni bidimensionali, c'è un’altra matrice: la maschera, il calco, la scultura, se vuoi iperrealistica.
Un altro elemento portante è quello del libro. A partire, dal libro di Jung e di artisti che collezionano o costruiscono libri, o che pensano allo spazio dell'immagine come un libro o un diario.
Il libro è visto come luogo di proiezione delle nostre idee, di rifugio, ma anche di partenza per viaggi immaginari.
Poi, ovviamente spero che la mostra abbia una forza fisica, nonostante sia costruita più che altro attraverso l'accumulo di oggetti individuali.
Piuttosto che avere grandi cose, preferisco che si crei una sensazione di grandezza attraverso la ripetizione di molte piccole cose. Anche perché ho cercato di allontanarmi un po' dalla teatralità della Biennale dei grandi gesti…

B.F.: … quella scenografica, certo.

MxG: Il museo è il referente di questa mostra, anzi cerco una dimensione anche più intima.
Non so se riuscirò, ma gran parte della sfida nel pensare all'architettura dell'Arsenale è stata proprio quella di concepire gli spazi in maniera tale che si possano avere esperienze intime anche con opere piccole.
Poi spero che ci siano tanti momenti più fisici, una serie di opere che utilizzano il corpo umano. Per me la performance è un medium come gli altri, sono tutti integrati nella mostra.
L'idea di una lingua perfetta e universale ritorna in tante opere, in quella di Steve McQueen, nelle performance di John Bock - spesso parlate con lingue immaginarie - in un pezzo di Tino Sehgal, nei libri di Xul Solar e così via.

B.F.: In un’intervista su Vogue hai detto che il curatore non è un artista a sua volta, ma deve affiancare gli artisti e deve essere pronto a fare delle follie insieme a loro.
Il museo mi suona però un po' come il mausoleo atto alla conservazione eterna. Questo grande incarico ti porta a interessarti di colpo alla conservazione, oppure possiamo ancora aspettarci che tu faccia delle follie insieme agli artisti?


MxG: Prima parlavamo di Tino Sehgal. Per esempio mettere in piedi una sua opera che dura sei mesi significa costruire una compagnia di folli, letteralmente lavoreremo con centinaia di persone che si daranno i turni.
Poi c'è un altro pezzo di Ragnar Kjartansson che richiede la collaborazione di decine di musicisti che dovranno suonare per sei mesi.
La durata della Biennale pone delle sfide abbastanza sopra le righe. Capisco quello che dicevi rispetto al museo, ma in realtà io lo vedo – e magari ne ho un'idea démodé – come un luogo magico.
Come luogo che non è la fiera d'arte e non è la galleria, non è il museo Blockbuster a cui siamo abituati oggi, ma invece come certi vecchi musei, anche un po' polverosi dove si possono scoprire capolavori accanto ad opere minori.
Un museo in un certo senso più vicino alla Wunderkammer o che mescola irrazionalismo e razionalismo.
Roger Caillois, artista-letterato che ha scritto libri sul sacro, in uno di essi racconta di quando all'inaugurazione del museo di Seul gli spettatori, al cospetto delle statue di Buddha in mostra, invece di guardarle come opere d'arte s'inginocchiavano come se fossero in un tempio.
Quell'idea di museo in cui uno possa apprezzare un'opera d'arte, ma possa anche apprezzarne una dimensione sacra – con tutte le precauzioni sul termine – ecco, quello credo sia interessante. Non dico che spero che il pubblico s'inginocchi di fronte a qualche scultura, però spero che si possa vivere la Biennale come un'esperienza più magica.

B.F.: Come distingueresti la tua Biennale dalle precedenti, come quella di Bonami ad esempio, alla quale hai collaborato?

MxG: Da una parte questa Biennale prosegue una ricerca che svolgo da un po' di tempo e che torna in molte altre mostre che ho curato.
Rispetto alle Biennali di Venezia recenti credo che la differenza più evidente sia che lo spettro storico è più ampio, perché si va dall'inizio del Novecento a oggi – con un paio di puntate anche nell'Ottocento.
Poi la presenza degli artisti non professionisti o comunque degli outsider credo sarà un aspetto distintivo, come culmine di un fenomeno che negli ultimi anni ha raccolto sempre più interesse.

B.F.: Come vorresti che fosse ricordata la tua Biennale dai posteri?

MxG: Spero venga ricordata! (ride...)
Mi sono sforzato di fare una mostra che da una parte rifletta quello che so fare, ma dall'altra ho cercato di non fare la cosa più facile per me.
Ad esempio non ho messo nessuno dei molti artisti con cui ho lavorato in passato, ho cercato cioè di spingermi anche un po' al di fuori dalla mia sfera di influenza e di conoscenza.
Pare che la Biennale sia più bella due anni dopo, quando tutti possono dire: “ma l'ultima è stata più bella...”
Spero che la “mia” venga ricordata come quella che era bella nel 2015 (scoppia a ridere).

B.F.: Grazie mille e in bocca al lupo!

Barbara Fässler, 11 aprile 2013

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Questo articolo sarà pubblicato anche sul prossimo numero della rivista Studija in inglese e lettone

Barbara Fässler, artista zurighese, formatasi alla Villa Arson a Nizza, opera prevalentemente con i linguaggi della fotografia, del video e dell'installazione. Dagli anni '90 cura mostre per varie instituzioni (ProjektRaum a Zurigo, Istituto Svizzero a Roma, Belvedere Onlus a Milano). Scrive regolarmente per la rivista d'arte contemporanea "Studija" di Riga e insegna 'Arti visive' al liceo della Scuola Svizzera di Milano.