Attraversare le contingenze allargando le prospettive

26/07/2011
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Geopatie

Tra le nazioni "minori" che presenziano alla Biennale di Venezia c'è anche l'Albania che ha scelto un curatore italiano per tracciare una mappa dei "campi energetici" che l'attraversano.
In questa intervista Riccardo Caldura ci racconta perchè per la mostra ha scelto artisti che parlano del loro Paese da lontano: inventando i colori dei paesaggi, analizzando le città in bianco e nero, campionando terra sporca di petrolio. E nei lavori degli artisti tutti i nodi vengono al pettine...



Driant Zeneli, Some say the moon is easy to touch..., video (preparazione su carta), 2011. Courtesy Prometeogallery, Milano




Driant Zeneli, Some say the moon is easy to touch..., video, 2011. Courtesy Prometeogallery, Milano




Gentian Shkurti, Democratic painting, video documentation, 2011




Orion Shima, The Forest (particolare), acrilico su legno, cm 180x220, 2010




Anila Rubiku, Other countries, other citizenships, fasi di montaggio




Anila Rubiku, Other countries, other citizenships, 2011




Anila Rubiku, Other countries, other citizenships (particolare), 2011




Eltjon Valle, Island (The Marinz Project)




Eltjon Valle, The Marinz Project




Eltjon Valle, The Marinz Project




Gentian Shkurti, Color blind, still da video, 2005




Driant Zeneli, Some say the moon is easy to touch..., video (preparazione su carta), 2011. Courtesy Prometeogallery, Milano




A cura di Katia Baraldi

Intervista a Riccardo Caldura, curatore del Padiglione nazionale albanese alla 54° Biennale d’Arte di Venezia con una mostra dal titolo Geopatie. Artisti partecipanti: Anila Rubiku, Orion Shima, Gentian Shkurti, Eltjon Valle e Driant Zeneli.
Spazio Rolak, dal 3 giugno al 27 novembre 2011


Katia Baraldi: La prima domanda, ovviamente, è come un italiano sia arrivato a curare il padiglione albanese alla Biennale d’Arte di Venezia.

Riccardo Caldura: In realtà è un lavoro iniziato alcuni anni fa, in particolare nel 2007 quando sono stato chiamato a far parte della giuria internazionale del premio Onufri, per l’arte contemporanea in Albania. Il premio consisteva in una collettiva intitolata There is no place like home e l’esposizione mi piacque tanto da decidere di portarne una parte alla Galleria Contemporaneo di Mestre, spazio pubblico per le arti contemporanee da me diretto fino al 2010.

Da questa occasione è nata una collaborazione proseguita un paio di anni dopo con la curatela del premio Onufri a Tirana, di cui mi occupo tutt’ora, e successivamente con la personale di Alban Hajdinaj alla Galleria Contemporaneo. Così siamo arrivati alla proposta di incarico di curatore del Padiglione nazionale da parte del Ministero della Cultura e dalla Galleria Nazionale di Tirana che fa da riferimento istituzionale per il Ministero. Per quanto sia azzardato affermare di conoscere la totalità del panorama artistico di un Paese, piccolo ma comunque con un’importante produzione, grazie a questa lunga collaborazione mi sono creato una buona conoscenza delle sue ricerche più innovative.

K.B.: Puoi spiegarci la scelta del titolo Geopatie e degli artisti presenti nel padiglione?

R.C.: Partiamo dal titolo e poi da com’è nato il progetto nella sua concretezza. Ovviamente le due cose si sono influenzate a vicenda.
Geopatie nasce dal considerare le opere come una sorta di dispositivo di rilevamento di reti che attraversano la superficie terrestre o che vi scorrono sotto, punti di tensione sotto cute del pianeta. Partiamo dai nodi di Hartmann che presuppongono l'esistenza di energie sotto la superficie del pianeta, in grado di creare anche disagio fisico alle persone e il cui rilevamento permetta la migliore disposizione della casa e dei mobili. Questa è la tradizionale accezione di geopatico legata al costruire e all’abitare, con un evidente richiamo alle antiche tecniche di origine cinese-taoista nello specifico del feng-shui.
A questo si può ricondurre lo sfondo del termine geopatia: un composto di due termini greci: “geo” terra e “phatos”, soffrire, sentire. Da qui l'idea di proporre l’opera come dispositivo per l’individuazione di linee che scorrono sotto le superficie della realtà, quelle date dalla stratificazione di geografia, storia, aspetti sociali e tensioni politiche.

Per dare forma a questo pensiero ho scelto artisti operanti sia nel loro Paese sia in altre nazioni in particolare l’Italia, che mantenessero però allo stesso tempo un rapporto non occasionale e concettualmente rilevante con il proprio Paese d'origine.
Il tentativo è stato anche quello di vedere cosa succede tra chi svolge ricerca in Albania e chi intorno ad essa si interroga da un’altra nazione. Avevo la possibilità di ospitare cinque artisti e li ho scelti vagliando le ricerche con una configurazione autosufficiente dal punto di vista formale, che fossero in grado di evidenziare la varietà dei media usati e che orbitassero intorno alla questione dell’arte in atto in Albania. Di conseguenza in mostra abbiamo aspetti legati all’installazione, alla ricerca video e alla pittura. Il tentativo è stato quello di costruire una sorta di mostra plurale anche da questo punto di vista.

K.B.: Come dicevi in questa indagine non ti fermi a un'esemplificazione di quello che è il percorso artistico dei giovani artisti albanesi ma tramite le loro opere cerchi di dare l’idea di quelle che sono le dinamiche sociali, politiche ed economiche dell’Albania attuale, ci puoi illustrare qualcosa di questa ricostruzione?

R.C.: Sicuramente c'è la possibilità di portare alla luce diversi aspetti della complessità albanese e questo è stato uno degli obiettivi nella scelta dei lavori. Tra l’altro si ripropone il problema della nazione che tutta questa Biennale sta recuperando. Si tratta di un riferimento che si può definire anacronistico considerando i movimenti globali, il fatto stesso che gli artisti si muovano in Paesi diversi e che si siano formati all’estero lo ribadisce.
In realtà questo anacronismo si sta rilevando la forza della Biennale e il concetto di nazione non sembra quindi essersi esaurito, ma è uno dei dispositivi più efficaci per sondare le differenze tra i vari luoghi, le diverse culture e situazioni nel mondo. Anzi appare come una sorta di finestra che permette di entrare in contatto con le differenze.

Entrando nel merito delle opere del padiglione è evidente che la ricerca di Anila Rubiku, con cui abbiamo volutamente aperto il percorso espositivo, ha a che fare con la problematica di “cosa è la mia nazione”, cosa resta del mio Paese d'origine qualora io mi formi o lavori o viva in un posto diverso. In qualche modo tratta la ri-acquisizione di un'identità, che però non ha più a che fare con quella originale. Emblematico sin dal titolo Other countries, other citizenships, (altro Paese altra forma di cittadinanza e di appartenenza), è un'installazione composta da 60 cappelli, realizzata grazie alla sponsorizzazione dalla Fondazione Borsalino, tutti ricamati a mano e da un'altra opera creata con 90 appendiabiti con una frase che riflette sulla problematica questione della cittadinanza e la perdita o il riacquisto di un'identità.

Il lavoro di Eltjon Valle si misura con la situazione ambientale concentrandosi sull’area di Marinz, nel sud dell’Albania, zona di estrazione petrolifera molto inquinata a causa delle tecniche obsolete di estrazione del petrolio che si sono usate per decenni in quella zona. Va ricordato che la profonda trasformazione in atto in Albania, e strettamente collegata allo sviluppo del Paese, sta generando problemi notevoli a livello di tenuta ambientale; chiunque abbia visto come si stanno sviluppando Tirana o Durazzo lo può aver notato. Geopatia in questo senso diventa non più una metafora ma una trasposizione letterale della situazione albanese.

K.B.: Ascoltandoti riflettevo che forse la situazione albanese può essere in qualche modo utilizzata come specchio, come finestra, per riflettere sulle problematiche che altre nazioni si stanno trovando ad affrontare. Alcune problematiche che l’Albania si sta trovando di fronte ora altri Paesi le hanno già affrontate...

R.C.: Anche questo è interessante, in realtà quando andiamo ad analizzare la situazione di un Paese si rilevano degli aspetti paradigmatici esemplari. Stiamo parlando dell’Albania ma contemporaneamente stiamo parlando di una trasformazione globale, che riguarda i punti di incontro e scontro tra il sistema dell’economia capitalista e quello della democrazia. Quindi ai processi democratici che accompagnano lo sviluppo di questo sistema economico si affiancano le tradizioni e le abitudini di Paesi che hanno storie diverse. Ed è il caso evidente dell’Albania, che pur essendo in Europa per decenni è risultata pressoché invisibile. Per persone di una certa generazione era quasi introvabile sulla carta geografica. Era isolata non soltanto dal complesso occidentale ma anche dal contesto orientale posto sotto l’egida sovietica. Aveva relazioni con la sola Cina.
Ecco cosa succede in un Paese che ha subito per quarant’anni una rigidissima dittatura comunista e che proveniva da circa trentennio di faticosa riappropriazione di identità nazionale dopo un plurisecolare periodo di occupazione Ottomana. Non solo l’Albania ma tutta l’area balcanica è arrivata relativamente tardi nell’Ottocento dopo il crollo dell’impero ottomano ad entrare, diciamo così, nel novero di un discorso europeo.

Dunque se contiamo quante fasi di isolamento e separazione costellano la storia albanese possiamo meglio comprendere cosa sia successo con il crollo del sistema comunista nei primi anni '90, che tipo di trasformazioni siano in corso in quel Paese e i suoi prevedibili disequilibri socio-economici.

K.B.: In questo si rispecchia anche il lavoro degli artisti che, come abbiamo detto, pur studiando e vivendo fuori dell’Albania continuano a mantenere un rapporto molto stretto con il loro Paese d’origine.

R.C.: Abbiamo citato Eltjon Valle che si è formato all’Accademia di Brera di Milano ma tutta la sua ricerca è volta ad indagare la situazione del proprio paese e ovviamente Valle espone anche a Tirana. Lo stesso vale per il lavoro di Anila Ruku, che è un incredibile sondaggio anche sulla problematica identità della condizione albanese. L’attenzione alla condizione ambientale e alla profonda trasformazione, anche negativa, che sta subendo l’Albania dovuta alla tumultuosità della sua crescita è rilevabile anche nei lavori di Orion Shima. Può sorprendere, se si pensa all’attuale ricerca artistica albanese, trovare in mostra quadri di paesaggio, ma Orion Shima lavora sulla ricostruzione del paesaggio naturale ma non realistico albanese, l'ambiente è ricostruito a partire dalla tradizione romantica dei paesaggi alla Caspar Friedrich fino alle ricerche di Anselm Kiefer.

Con Color blind, video di Gentian Shkurti, osserviamo invece il territorio urbano di Tirana. L’immagine della capitale è stata definita nel 2003 con il famoso progetto del sindaco che ha fatto ridipingere la facciata di molti edifici sulla base di progetti d'artista, da questo Anri Sala ha prodotto il documentario Dammi il colore. Gentian Shkurti si interroga sulla liceità di questa operazione di maquillage e sulla relazione fra decisioni politiche e modifiche dello scenario urbano. Nel video Tirana viene percorsa idealmente da due persone, una guida e un visitatore, mostrando cosa succede se la città è narrata ad una persona affetta dalla incapacità di percepire il colore, da acromatopsia. Nel secondo lavoro Democratic peinting di Shkurti, c'è un’ulteriore interpretazione del rapporto tra arte e consenso. Cercando di rispondere alla domanda su come un pittore può essere veramente democratico, Shkurti ha deciso di svolgere un’indagine sulle preferenze cromatiche del pubblico: utilizzandole e valutandole in termini di percentuale di colore, arriva ad elaborare un dipinto effettivamente “democratico”.

La collettiva aperta sulla questione di “quali paesi e quali cittadinanze” si chiude con un viaggio teso a immaginare di toccare la luna con Some say the moon is easy to touch di Driant Zeneli, recentissimo video di grande intensità poetica oltre che di grande qualità formale.

K.B.: Partendo da una riflessione provocatoria e drammatica della Rubiku il percorso espositivo finisce con questo video di Driant Zeneli improntato ad un formalismo molto poetico che è allo stesso tempo una riflessione sull’impossibilità di trovare una vera e propria definizione dell’essere cittadini ora...

R.C.: Attraverso l’arte è difficile che tu ottenga delle risposte, bensì ottieni delle domande molto radicali ed è questo l’aspetto più affascinante del poter lavorare con gli artisti sulla condizione d’essere della contemporaneità.

K.B.: Qualcuno potrebbe criticare la figura del curatore come eccessivamente presente in questa esposizione, ma secondo te è fondamentale questo tipo di approccio “classico”, la collettiva appunto, per un padiglione nazionale della Biennale?

R.C.: E’ una questione complessa, se la rappresentatività nazionale vuole cogliere una condizione di pluralità forse la collettiva non è una modalità così fuori luogo, poi consideriamo che molto dipende dall'intreccio degli spazi. Pensando a questo tipo di collettiva abbiamo infatti scelto uno spazio che ci permettesse una disposizione dei lavori per singole stanze. Così l'esposizione è costituita da episodi apparentemente singoli in aree omogenee ma indipendenti, seppure correlate.
Tornando sulla tua domanda sul compito del curatore, secondo me il ruolo curatoriale non si esaurisce nel costruire un aspetto concettuale bensì anche un percorso allestitivo e visivo.

K.B.: L’Albania è stata per molto tempo isolata e per il suo padiglione si è scelto anche in questo caso uno spazio un po’ defilato, pur rimanendo nel centro storico di Venezia (la Giudecca di fronte a San Marco). Non è un po’ penalizzante se si confronta con la visibilità dei padiglioni delle nazioni principali? Inoltre riflettevo sulla continua e sostenuta importanza delle nazioni considerate minori in queste ultime edizioni della Biennale, cosa ne pensi?

R.C.: La divisione per padiglioni nazionali che osserviamo ai Giardini dipende da una fotografia non certamente aggiornata dell’Europa e del mondo e che questa possa essere penalizzante per le nazioni non presenti ai Giardini è certamente vero. E’ quella l’anima della Biennale, ma le Corderie iniziano ad ospitare sempre più padiglioni nazionali e possiamo immaginare che, data l’estrema disponibilità di volumetrie, nella zona dell’Arsenale si possa configurare un possibile ampliamento dei padiglioni in quell’area. E' infatti previsto che l’Argentina apra il suo padiglione proprio all’Arsenale. Quello che dici è però verissimo.

In realtà moltissimi Paesi “minori” ci tengono a partecipare alla Biennale, si ribadisce spesso che dall’edizione scorsa a questa si sono aggiunte 12 nazioni passando da 77 a 89 padiglioni ed è altrettanto vero che la maggior parte di essi sono dislocati rispetto ai Giardini. Allo stesso tempo la curiosità e la ricerca di notizie diverse da quelle meno ovvie provenienti dalla Francia o dalla Germania, da parte del pubblico, si sta spostando appunto sulle proposte dei cosiddetti padiglioni minori. Chiudiamo sull’Albania, facilissima da raggiungere con i vaporetti dai Giardini e dalle Zattere, lontana ma in realtà molto vicina. Godiamo infatti di un'alta frequentazione frequentazione con una costante di visite di circa 60/50 persone al giorno, che non è poco per un padiglione minore e dislocato.


Maggiori informazioni sulla mostra Geopatie

Riccardo Caldura, insegna Fenomenologia delle arti contemporanee all'Accademia di Belle Arti di Venezia. Ha diretto la Galleria Contemporaneo di Mestre dal 2006 al 2010, ora trasformata in associazione no profit, con la quale si sta occupando in particolare di un nuovo progetto, il "Parco del Contemporaneo" nell'area ex-demaniale di Forte Marghera, sempre nel comune di Venezia.
La collaborazione con la Galleria nazionale delle arti di Tirana, da cui ha ricevuto l'incarico di curare il padiglione albanese per la Biennale 2011, è iniziata nel 2008. Ha fatto parte in quell'anno della giuria Internazionale del Premio Onufri, e l'anno successivo ha curato il Premio progettando la collettiva "Do you know the land where the paradoxies blossom?". Con la Galleria Contemporaneo ha curato la personale di Alban Hajdinaj (2009, evento collaterale alla Biennale) e la collettiva "Res Derelicta - Dall'abbandono all'emblematicità dei luoghi", con la partecipazione di Armando Lulaj.

Katia Baraldi è curatrice d'arte indipendente dal 2007, con una formazione storico-sociale. Il suo lavoro indaga in particolare le relazioni esistenti tra le pratiche artistiche e le dinamiche di sviluppo e trasformazione della società occidentale. Tra gli eventi curati: "Transition. A private matter", Roaming, Praga; "Front of Art. Esperienze di arte pubblica. Il paesaggio e la comunità", Nervesa della Battaglia (TV), il progetto collettivo "Flaktowers", per il progetto d'artista Bateaurouge, di Alejandra Ballon, Usine Kluger, Ginevra / Vienna.




Una Biennale alterground

Abbiamo pensato di parlare di questa 54ma Biennale di Venezia a partire da intuizioni e suggerimenti che ne tracciano un disegno diverso da quello messo a fuoco dal mainstream e che va al di là del suo momento di grande visibilità sui media.
Per questo a più riprese stiamo proponendo il risultato del lavoro e dell'energia di artisti e curatori con cui abbiamo condiviso l'intenzione di presentare una Biennale Alterground.
Ecco qui alcune situazioni, personaggi e derive che con alcuni di loro ci siamo andati a cercare...

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