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DROME magazine Anno 2 Numero 6 gennaio - marzo 2006



Cibo

di Raffaella De Santis

Nella Tea House di Rirkrit Tiravanija



arti/culture/visioni
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Immagine: Rirkrit Tiravanija, Teahouse/Casa del Tè, 2005, courtesy Neugeriemschneider @ foto Sillani

E' diventato famoso con cozze e curry, predilige l'arte relazionale, performativa e nomadica, le sculture sociali, il distacco zen.
Intervista con l'artista thailandese che ha sedotto il gusto del mondo dell'arte.

Il cibo prima di confondersi con l'arte è memoria privata. Per Rirkrit Tiravanija è il ricordo di una casa a Bangkok, immersa nella vegetazione tropicale, in cui la nonna, di professione insegnante ma cuoca per vocazione, sperimentava le sue ricette. E' lì, in quella casa piena di ospiti, tra piante esotiche e odore di curry, che Rirkrit inizierà a maturare l'idea di cibo come pratica sociale che tanto influenzerà il suo lavoro.
Nato nel 1961 a Buenos Aires, vincitore nel 2004 dell'Hugo Boss Prize, l'importante premio del Guggenheim Museum di New York, Tiravanija vive oggi tra gli Stati Uniti, l'Europa e la Thailandia.
Il successo arriva negli anni Novanta con i primi esperimenti di arte interattiva. Per una mostra a Chicago nel '93 costruisce una cucina dentro una galleria e invita i visitatori a prepararsi da mangiare. Da allora ha cucinato in musei e gallerie in tutto il mondo.
Di recente una sua Tea House è stata esposta nel parco di Villa Manin, vicino Udine, nell'ambito della collettiva “Luna Park. Arte fantastica”. La Tea House pensata da Tiravanija è un cubo dentro il quale si può entrare e soggiornare. “Si tratta ancora una volta di uno spazio di condivisione. Ho costruito un cubo sollevato da terra che ha all'interno una cucina e una macchina da caffè”.

DROME: Caffè? Perché offrire caffè in una sala da tè?
Rirkrit Tiravanija: Perché il cibo disattende le aspettative. L'arte disattende le aspettative. Arte e cibo non sono mai come ce li aspettiamo. Si entra con un'idea – bere un buon tè – e ci si ritrova nel mezzo di un'altra esperienza.

D: Cucinare dunque come apertura all'altro, al futuro. Il cibo come forma di espropriazione, esperienza improduttiva, dépense?
RT: Anche. Io sono buddista e per me è molto importante la nozione di “non attaccamento”. Vivo e voglio vivere nel real time, nel presente in cui le cose accadono. Si cucina e si mangia, si chiacchiera mentre si mangia. Passato e futuro entrano nel movimento di quella comunicazione in divenire, abitano uno spazio comune.

D: Ma il cibo non è anche identità, radici, territorio?
RT: Per me è soprattutto contaminazione, spostamento, movimento. Mi misuro con il cibo come mi misuro con lo spazio. Il cibo è il medium del contatto, è il territorio ibrido dell'arte intesa come play and game in life. E' un'attitudine al flusso, uno stare dentro la vita.

D: A proposito di flusso, che peso ha avuto nel tuo lavoro Fluxus, il movimento che negli anni Sessanta ha lanciato la moda degli happening?
RT: Fluxus e Andy Warhol sono importantissimi per il mio lavoro. E' in quel periodo che si inizia a scardinare una concezione statica del fatto artistico e la quotidianità irrompe nell'opera, l'arte si confonde con la vita. Né lo spazio, né il tempo sono concetti statici. Non mi interessa l'astrattismo concettuale.

D: L'arte come la vita. Ma ha ancora senso questa desacralizzazione dell'estetica, la sua riduzione a fatto quotidiano?
RT: L'arte è nell'interazione. Ho offerto cibo nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo. L'opera non è mai qualcosa di esterno. Si entra nell'opera, come si entra nella Tea House. Si può soggiornare nell'opera, esserci dentro. La tea room è pensata all'interno di un parco giochi, di un luogo di divertimento. Divertirsi è anche ribaltare le aspettative, capovolgere le attese, stupire. L'arte è vicina alla vita in questa sua capacità di consegnarsi al caso, all'imprevisto. In questo senso il mio cubo è pensato come luogo del futuro.

D: Per questo ti sei messo in viaggio da Berlino a Lione cucinando lungo la strada?
RT: Bon Voyage era un'opera nomade di cibo e strada. Con Franz Ackermann ci fermavamo a cucinare lungo il tragitto invitando la gente a mangiare i nostri piatti ma anche a cucinare in prima persona. Siamo partiti in macchina con un fornello e tre videocamere. Il resto era legato alla casualità degli incontri.

D: A Madrid giravi con un fornello montato su una bicicletta ma non hai incontrato molte persone...
RT: Fa parte del gioco. Anche questo vuol dire to be in the moment...

D: Noi diciamo cogliere l'attimo, che è diverso da vivere nell'attimo.
RT: Per me vale l'idea del distacco. Il distacco non ha niente a che vedere con il possesso. Non ci si appropria del tempo, come non ci appropria del cibo. Il cibo è apertura all'imprevisto.

D: Oggi che cosa hai cucinato?
RT: Spaghetti al nero di seppia, il mio piatto forte. Ma quando sono in Italia mangio di tutto.

di Raffaella De Santis